Mas as a hatter[1]
A cura di Mario Pasquali
Alice si ritrovò in un posto fantastico, un vero paese delle meraviglie, grazie alla propria curiosità
Quello che mi spinge, spesso, nell’intraprendere un nuovo percorso è proprio la stessa curiosità, ma se fosse solo questa non basterebbe per proseguire il cammino; c’è la voglia di capire, scoprire fin dove si può arrivare e, nel frattempo, vivere i momenti che compongono l’esperienza.
Nell’affrontare, per la prima volta, un corso di mentoring nel tennis (e nello sport) dalla parte di chi aveva il compito di facilitare l’apprendimento ai partecipanti, mi sono ritrovato, nonostante tutto, ad essere ancora allievo.
Si tratta sempre di una strada a due corsie perché, quando trasmetti contenuti, ne ricevi altrettanti. Se c’è una cosa che la metodologia del mentoring spiega, e rende subito evidente, è proprio questo.
Trovandomi nella posizione di facilitatore e di supporto, ma anche di allievo che impara a condurre una docenza, sono stato Mentor e sono stato ancora una volta Mentee (direi… potentemente mentee).
Nel mio Paese delle Meraviglie sono diventato Alice e, allo stesso tempo, il Cappellaio Matto. Questa figura, nata dall’espressione di epoca vittoriana "matto come un cappellaio", è l’immagine che subito è apparsa nella mia testa quando mi è stato detto di cambiare “cappello” a seconda della situazione nella quale era richiesto il mio intervento.
In tempi decisamente più recenti, nel 1985, Edward De Bono ha pubblicato “Sei Cappelli per Pensare”, nel quale viene spiegato come affrontare lo stesso item sotto differenti aspetti, rappresentati da sei cappelli di diverso colore che corrispondono ognuno a un determinato comportamento.
Così ho indossato il cappello della didattica, quello dell’azione, quello dell’ascolto e via via sempre un cappello di colore diverso a seconda di quello che richiedevano la situazione e lo svolgimento del corso.
Anche il Mentor indossa cappelli diversi a seconda della situazione, ma anche quando deve valutare una stessa questione da prospettive differenti, altrimenti non potrebbe essere quella figura di riferimento e di esempio di cui il Mentee ha bisogno.
In realtà, non riesco a non pensare al fatto che ognuno di noi indossi un cappello diverso a seconda della situazione in cui si trova e alle persone con cui si rapporta; allora, non potrebbe essere che questa capacità possa essere “allenata” tramite i contenuti veicolati dal mentoring? Apprendere non solo quale ruolo adottare nelle situazioni, ma imparare a vederle da prospettive diverse che non siano la nostra, uscire dalla nostra zona di comfort, pensare fuori dalla scatola?
Con una relativa forzatura, è parte dell’apprendimento delle soft skills che sono essenziali nell'attività del Mentor e che rappresentano, in determinate situazioni, l’obiettivo del Mentee in un rapporto di mentoring.
L’immagine del cappellaio mi ha, quindi, accompagnato anche per tutto il viaggio verso casa, dopo il corso, così come le sue parole: “C’è un posto che non ha eguali sulla terra… Questo luogo è un luogo unico al mondo, una terra colma di meraviglie mistero e pericolo. Si dice che per sopravvivere qui bisogna essere matti come un cappellaio. E per fortuna… io lo sono”.
Sì, io lo sono. E voglio imparare ad esserlo sempre di più.
Mario Pasquali
Libri:
- Edward De Bono, ‘Sei Cappelli per Pensare’, 1985
[1] Il presente documento è soggetto a copertura dei diritti del marchio SIM, marchio depositato e registrato attraverso la SIB (Società Italiana Brevetti).